La cacciata dei vagabondi da Livorno

Il durissimo bando granducale del 14 settembre 1703

Il 14 settembre 1703 «L’illustrissimo Signor Mario Tornaquinci Sergente Generale di Battaglia di Sua Altezza Reale e per la medesima Governatore della Giustizia e Armi della Città, Porto e Iurisdizione di Livorno» emanò il seguente bando, in nome del granduca Cosimo III, che prevedeva l’espulsione dei vagabondi da Livorno e una serie di pene durissime anche per i bambini:

«Considerando quanto sino a qui siano stati male osservati i bandi contro i birboni e vagabondi, cantimbanchi, ciarlatani e altre simili persone oziose, publicati in diversi tempi, e precisamente il bando de’ 27 marzo 1697, publicato in questa città… che non ostante si vedono multiplicare simili gente, e che molti contadini e gente di bassa condizione, che per altro sono atti a lavorare la terra e far altre arti e mestieri per guadagnarsi il vivere, dandosi alla pigrizia, vanno accattando e si moltiplicano li oziosi e i birboni.

Onde, per ovviare a’ molti inconvenienti e disordini di latrocini, assassinamenti e scandoli e massime che non venga gente di fuora a mendicare, in pregiudizio de’ Poveri della città. Di comandamento espresso della prefata A.R., per il presente pubblico bando, rinnova e a memoria riduce tutti li suddetti bandi e, senza quella derogare, nuovamente bandisce dalla città di Livorno tutti li vagabondi, furfanti, accattoni e tutti li uomini e donne quali, essendo abili a poter lavorare o fare qualsivoglia esercizio permesso, vivino oziosamente, intimando a tutti li suddetti che, fra otto giorni doppo la publicazione del presente bando, debbino avere sfrattato da questa città di Livorno, con cominazione che quelli che vi saranno, e maggiori di anni quindici, saranno mandati irremissibilmente e de facto abbrancati alla carretta per lavorare alla Fabbrica di Sua Altezza Reale, a beneplacito della medesima Altezza, e i minori di anni quindici, siccome le donne, nella pena della frusta, da eseguirsi in pubblico de facto e irremissibilmente e ad essere di più le dette donne rapate.

Dichiarando ancora che i suddetti minori d’anni quindici, trovandosi che oltre all’andare accattando siano sospetti di ladri (come per lo più segue, che sotto il pretesto di andare ad accattare rubano quanto possono), oltre alla pena della frusta come sopra, saranno bollati con il fuoco.

E perché si sono in questa città ricoverati molti forastieri con le loro famiglie, i quali vanno e mandano i loro figlioli per la città ad accattare, ordina perciò e comanda a tutti questi tali forastieri, abitanti da sette anni in qua in questa città, che prontamente sfrattino con le loro famiglie e se ne tornino alla loro patria, con cominazione che, non obbedendo e trovandosi essi o alcuno della sua famiglia per la città ad accattare, saranno puniti secondo il disposto di sopra, e il padre o capo di casa che permetterà a’ suoi l’andare ad accattare incorrerà nella pena della carretta abbrancato, da eseguirsi de facto come sopra; né li possa giovare l’allegare ignoranza; avvertendo che del tutto se ne farà rigorosa esecuzione, sommariamente, senza accettare colorato pretesti o scuse frivoli; incaricandone perciò l’inviolabile osservanza a questo bargello e alli esecutori d’invigilare e catturare tutti li accattoni che, doppo otto giorno dal dì della pubblicazione del presente bando, troveranno per la città ad accattare, eccettuato però quelli che avessero il segno de’ Signori Governatori della Pia Casa de’ poveri Mendicanti di questa città, proibendo a questi tali che averanno licenza di questuare da’ detti Signori Governatori, il poter entrare a questuare dentro le Chiese, ma devino stare alle porte di esse, sotto le pene di sopra espresse…»

Lorenzo Cantini (1765-1839), nella sua raccolta di tutte le leggi, bandi, editti e rescritti del principato mediceo e lorenese dal 1532 al 1775, commenta così l’estrema durezza di questo provvedimento:

«Si richiama con questa legge non solamente in osservanza quella del 27 marzo 1697… ma si aumenta ancora la pena in quella stabilita contro gli accattoni e vagabondi nella città di Livorno e specialmente contro quelli che, compìta non hanno l’età di anni quindici, ne’ quali si vuol punita la trasgressione alla legge colla pena della frusta e del bollo con fuoco. Questa è una pena eccessiva e grandemente sproporzionata al delitto. Simili trasgressori sono creduti dal legislatore anco rei di furto e perciò aggrava sopra di essi il rigore della pena, ma un uomo affinché sia punito giustamente non basta il sospetto della di lui reità, essendo necessaria che sia chiara, provata ed incontrovertibile.

La pena del bollo fa orrore ad un’anima sensibile e ragionevole; i di lei effetti sono terribili per il reo che la sopporta, e nulla vantaggiosi per lo Stato; quello è ridotto nella lacrimevole situazione di non trovare un palmo di terreno ove vivere con sicurezza. Si trova espulso da tutte le nazioni, giacché niuna vuol ricevere un uomo giudicato di perverso carattere. La disperazione lo circonda, ed invece di emendarsi e pensare a condurre una vita onesta ed irreprensibile, diviene furibondo e moltiplica le colpe, perché è condotto dalla forza della necessità a trovare i mezzi della sussistenza nell’infame delitto dell’assassinio o a togliersi volontariamente la vita e divenir suicida».

Fonte: L. CANTINI, Legislazione toscana raccolta e illustrata, tomo XXI (1805).

 

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