L’esercito macedone che conquistò un Impero

Intorno al 359 A.C. Filippo II di Macedonia divenne Re di un regno assediato da ogni lato che proveniva da un’umiliante e terribile sconfitta contro gli Illiri.

Solo trentasei anni dopo il regno era diventato un Impero che si ergeva come dominatore del mondo conosciuto allora. I suoi confini andavano dall’Adriatico al fiume Indo, dal Nilo al Mar Nero.

Quest’impresa straordinaria che non aveva precedenti fu resa possibile da uno strumento decisivo: La spina dorsale dell’esercito macedone, la fanteria.
Nel mondo greco (e oltre) il modello predominante era la falange oplitica. Queste formazioni serrate di fanteria pesante erano composte da cittadini-soldato anche se lentamente si era arrivati a un aumento di soldati professionisti che vendevano i propri servigi in tutto il Mediterraneo.

La mancanza di addestramento degli opliti greci rendeva difficile eseguire tattiche più complesse dello scontro frontale con il fronte nemico, cui seguiva la spinta che finiva per provocare la rotta e il massacro di una delle due parti. Gli Spartani, ad esempio, che potevano schierare un corpo di guerrieri altamente disciplinati e professionisti, per secoli avevano mantenuto la supremazia militare terrestre in tutto il mondo greco. Almeno fino a quando non vennero sconfitti dalle innovative tattiche dei tebani Pelopida e Epaminonda a Mantinea.

Filippo trascorse diversi anni come ostaggio a Tebe, dove sicuramente imparò molto sulla nuova concezione di “falange obliqua”, dotata di più fila per esercitare più pressione sull’avversario. Sebbene la Macedonia fosse rinomata per la sua eccellente cavalleria, non aveva mai avuto un corpo di fanteria altrettanto buona. A un certo punto però le cose cambiarono. Non si sa bene quando, ma i contadini macedoni iniziarono a essere reclutati su base territoriali e vennero chiamati pezhetairoi, cioè “Compagni a piedi”. Probabilmente tale termine indicava un piccolo gruppo di fanti scelti al comando del Re, ma pian piano anche il resto delle truppe vennero equipaggiate e addestrate allo stesso modo. Alessandro in seguito estese il termine a tutta la fanteria pesante, salvo i suoi reparti scelti. Filippo fu molto abile nel trasformare dei semplici contadini, ritenuti semi-barbari dagli altri greci, in soldati disciplinati e pronti a battersi fino alla morte.

Per prima cosa si preoccupò di equipaggiarli abbastanza uniformemente, ma in modo diverso dall’oplita greco. Quello che Filippo voleva ottenere era la migliore combinazione possibile di mobilità, capacità difensiva, offensiva ma soprattutto il risparmio di energie. La pesante panoplia dell’oplita fu abbandonata in favore di un armamento molto più leggero. L’elmo beotico, diffusosi dalla Beozia e dalla Tessaglia, a differenza di quello corinzio non ostruiva la visuale del fante. Invece del pesante e largo scudo oplon che dava il nome all’oplita, si passò a uno scudo più piccolo, sospeso al collo e retto con l’avambraccio, che permetteva l’uso di entrambe le mani. Una corazza di ferro o di lino pressato proteggeva il torace, mentre un paio di schinieri difendevano le gambe. La maggiore mobilità permetteva di muoversi più velocemente, di stancarsi di meno e di maneggiare la lunga sarissa, la principale arma del fante pesante. Si trattava di una lancia molto più lunga di quella usata dall’oplita: le fonti parlano di armi lunghe fra i 5,5 mt e 7,3 mt in base al periodo. Probabilmente non venne “inventata” da Filippo, ma fu il frutto di una lunga evoluzione. Ad una estremità era dotata di un contrappeso dotato di punta, che permetteva di piantare l’asta nel terreno per formare una palizzata per fermare cavalieri e carri, oltre che fare da contrappeso. Al centro vi era un’impugnata in cuoio, che permetteva di mantenere la presa salda e indicava dove essa dovesse essere afferrata in modo da avere un muro di picche uniforme. Infine, era presente una sorta di cilindro di ferro, sulla cui funzione si è discusso. Per alcuni, esso sarebbe una guardia che impediva a nemici dotati di armi taglienti di spezzare le sarisse e aprire un varco ai compagni. Secondo altri, esso permetteva di congiungere le due sezioni dell’arma, che durante la marcia era smontata per essere trasportata più comodamente. Quando però la sarissa risultava troppo lunga per essere usata con efficacia, il fante macedone poteva contare su lance da oplita e armi corte come spade e asce.
Dopo averli equipaggiati, Filippo provvide a trasformare i suoi sudditi in soldati. Iniziarono competizioni, marce forzate con tutto l’equipaggiamento e manovre simulate che resero i soldati macedoni resistenti, disciplinati e pronti ad ogni evenienza. Filippo dispose i suoi uomini su file da 16 e profonde 16 ranghi, in modo da avere una syntagmata, 256 uomini che formavano una sorta di battaglione. Dato che questi erano vulnerabili ai lati, venivano impiegati gli hypaspistai, truppe d’élite che potevano essere equipaggiate come falangiti o come opliti, il cui compito era usare la propria superiore abilità e adattabilità per proteggere la falange.
Anche la fanteria leggera era apprezzata ed usata, in quanto i peltasti, armati di giavellotti e piccoli scudi, gli arcieri e i frombolieri, potevano combattere anche su terreni rotti, contrastare i tiratori nemici e ammorbidire le formazioni avversarie prima della mischia. Ma sarebbe un errore dividere rigidamente fanteria pesante e leggera, in quanto perfino le truppe d’élite potevano adattarsi a combattere con un equipaggiamento meno pesante del normale.
Contrariamente a quanto si pensa, alcuni studiosi hanno esposto la tesi che la falange macedone non fosse stata “l’incudine” su cui abbattere “il martello” della cavalleria. Una formazione del genere sarebbe stata troppo vulnerabile in posizione statica perché un nemico spregiudicato, giocando con azzardo, avrebbepotuto provare ad aprirsi varchi fra le sarisse, tormentare i fanti col tiro di proiettili oppure concentrarsi sullo sfondare sui lati.

Se invece pensiamo alla falange in formazione offensiva, è difficile immaginare una formazione in grado di reggere all’urto di una selva di lance che avanza inesorabile. Costretto ad affrontare le sarisse senza poter indietreggiare, il fante antico si sarebbe trovato in una situazione orribile, schiacciato fra le seconde fila e le punte di lancia. Se consideriamo anche che le formazioni di fanteria erano usate non solo per inchiodare il nemico, ma anche per aprirvi varchi per la cavalleria, possiamo forse ribattezzare la tattica alessandrina come quella del “martello e martello”.
Anche la supposta efficacia della selva di picche nel deflettere i proiettili nemici è stata messa in dubbio, in quanto le aste non sarebbero così ravvicinate o larghe per avere un effetto difensivo di una certa importanza contro il tiro.

 

IL MAGLIO DI ALESSANDRO: LA CAVALLERIA

Quando invase l’Impero Persiano, Alessandro aveva diversi contingenti di cavalleria ai suoi ordini. La sua punta di diamante, l’unità risolutiva, la guardia del corpo del re, gli hetairoi erano la creme della gioventù nobiliare macedone. Sebbene siano considerati fra i primissimi tipi di cavalleria d’urto e cavalleria pesante, l’equipaggiamento di questi nobili era assai diverso da quello di un cavaliere medievale o un catafratto. Montati su un cavallo privo di protezioni, indossavano lo stesso elmo beotico della fanteria, che non proteggeva tutto il viso. Sebbene indossassero un’armatura di cuoio o di metallo per proteggere il corpo, non avevano né schinieri né scudi. Le loro due armi erano lo xiston, una lancia più corta della sarissa con cui scompaginare le linee nemiche, e la spada makhaira, con la quale calare vigorosi fendenti dall’alto. Fino a quel momento, la maggior parte della cavalleria aveva combattuto lanciando giavellotti o frecce dalla distanza, evitando di ingaggiare il nemico in corpo a corpo per quanto possibile.

Il tipico cavaliere fino ad allora non caricava, ma si avvicinava al piccolo trotto e si affidava al vantaggio dell’altezza e alla stazza dell’animale più che all’impeto dell’urto per respingere i nemici perché la mancanza di staffe rendeva il mantenersi in equilibrio sull’animale un’operazione già di per sé difficoltosa, dovendo aggrapparsi con le ginocchia e reggendo le redini.

Sebbene i suoi “compagni” fossero la sua arma vincente, Alessandro seppe anche utilizzare i prodromoi, cavalieri leggere utilizzati come esploratori, fondamentali a livello strategico per acquisire informazioni sul nemico ed esplorare i dintorni. Ma non si limitavano a tali operazioni. Dimostrando ancora una volta la flessibilità dell’esercito macedone, essi potevano vestire un equipaggiamento più pesante e partecipare attivamente alle battaglie, svolgendo un importante ruolo di supporto per gli hetairoi. Armati di lunghe lance e schierati in ordine aperto, il loro obbiettivo principale era ingaggiare la cavalleria nemica per permettere ai compagni di aggredire le formazioni di fanteria nemica senza essere disturbati. Oltre ai prodromi, la cui origine etnica è discussa, vi erano anche molti cavalieri Traci o Peoni, in quanto le tribù balcaniche erano abituate a simili tattiche di cavalleria, e particolarmente indicate per combattere sugli altipiani iraniani contrastando la cavalleria leggera persiana. Vi erano poi i cavalieri Tessali, da secoli rinomati come i migliori cavallerizzi di tutta la Grecia. Equipaggiati in modo simile agli hetairoi, non godevano dello stesso rispetto e fiducia da parte di Alessandro, che spesso li usò come esca per attirare allo scoperto corpi consistenti di cavalleria nemica in modo da poterli caricare sui fianchi. Infine, dopo la morte di Dario, Alessandro ebbe a disposizione sempre più truppe orientali, rinomate per la loro abilità a cavallo. Alcuni di essi vennero addestrati ed armati secondo i canoni macedoni, mentre altri continuarono a battersi secondo il loro stile tradizionale.

UN’ARMA NUOVA: L’ARTIGLIERIA
Si fa risalire l’invenzione delle catapulte nel mondo greco al 399, a Siracusa, per volontà del tiranno Dionisio I. Fino ad allora l’arte di condurre assedi si basava sul circondare e affamare una fortezza, ricorrere al tradimento di uno dei difensori, oppure condurre assalti sanguinosi con scale e arieti. Grazie a queste macchine invece era ora possibile ora lanciare dardi e sassi contro i difensori, sopprimendo così i tiratori nemici e indebolendo le mura. Il primo incontro con delle macchine simili fu uno shock per i Macedoni. Nel 354 Filippo fu sconfitto da Onomarco di Focide, che attirò i Macedoni in uno stretto canyon dove vennero bersagliati dal tiro delle catapulte. Sebbene questi rudimentali pezzi d’artiglieria avessero una gittata, una frequenza di tiro e un’efficacia tutto sommato limitata, avevano uno straordinario effetto psicologico su soldati che non avevano mai visto tali marchingegni. Trovarsi sotto una pioggia di pietre, senza poter contrattaccare era un’esperienza snervante per un guerriero antico. Quando Alessandro si trovò ad attraversare il fiume Syr Darya, bastò che uno solo dei guerrieri Sciti che occupavano la riva opposta venisse ucciso da un proiettile affinché tutta la truppa si demoralizzasse e indietreggiasse. Il modo migliore di usare queste macchine era di posizionarle dove il nemico non poteva raggiungerle al fine di uccidere i serventi. Sponde di fiumi, mura, alti pendii, ponti di navi erano luoghi ideali per sfruttare la gittata di questi macchinari. Ve n’erano di due tipi, basati sul tipo di propulsione del proiettile. Le macchine non a torsione, ovvero tensionali, si basavano sul principio dell’arco, e infatti si basavano su grandi archi per lanciare piccole pietre o dardi al nemico. I gastraphetes erano delle baliste rudimentali, facili da realizzare ma complesse da montare e posizionare, inferiori però alle macchine a torsione. Usando tendini, crini e anche capelli era possibile sfruttare l’elasticità di torsione prodotta da questi fasci di fibre elastiche per lanciare proiettili più grandi con più forza, precisione e gittata. Alessandro utilizzò la propria intelligenza tattica per usare al meglio queste macchine rudimentali, posizionandole su torri d’assedio e navi per sfruttarne il potenziale distruttivo e limitarne i difetti. Sebbene queste macchine furono un’aggiunta ben accolta nell’arsenale dei generali dell’antichità, non stravolsero né il modo di condurre battaglie né quello di condurre assedi, sebbene andassero ad aggiungere un nuovo grado di complessità a tali operazioni.

Grazie agli uomini altamente disciplinati, organizzati, professionali, fedeli e flessibili che Alessandro ereditò da suo padre, si rese possibile un’impresa che sembrava impossibile: abbattere l’Impero Persiano. Lungi dall’essere perfetta, la macchina bellica Macedone aveva diversi difetti. Alessandro non si intendeva di guerra navale, e dovette sempre affidarsi agli alleati Fenici e Greci. I suoi alleati ellenici inoltre erano una fonte di preoccupazione costante, in quanto le riottose pòleis erano lungi dall’accettare serenamente l’egemonia macedone. Il contingente fornito dalle città-stato più che avere una funzione militare infatti aveva uno scopo politico, in quanto permetteva ad Alessandro di avere in pugno migliaia di ostaggi su cui vendicarsi in caso di ribellioni. Col tempo, il sovrano macedone divenne sempre più paranoico e si adoperò per assicurarsi che l’esercito fosse fedele a lui e a lui soltanto, facendo giustiziare diversi comandanti e riorganizzando l’armata in modo da rompere i tradizionali vincoli di fedeltà regionali. L’effetto di tali misure fu straordinario: a parte qualche raro caso (come alle porte dell’India), l’esercito seguì il proprio re in ogni impresa. L’impero più grande che il mondo avesse mai visto però non sopravvisse al suo fondatore. I diadochi si spartirono l’impero a colpi di spada, e sebbene pur con cambiamenti e modifiche, il modello militare macedone rimase vincente per diversi secoli, fino a quando l’aquila romana non calò su quello che restava dell’eredità di Alessandro.
Fonti:
– The Army of Alexander the Great, Stephen English
– Bibliotheca Historica, Diodoro Siculo
– The Army of Alexander the Great, Nicholas Sekunda

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