L’arte della lana e via Calimala, la via dei pannilani

L’Arte dei Mercatanti o di Calimala era una delle Arti Maggiori tra le corporazioni di arti e mestieri di Firenze.
Il nome deriva da via Calimala, nel centro di Firenze, dove esistevano numerose botteghe dell’Arte.
La strada era il tratto sud dell’antico cardo romano.
La strada è sempre stata trafficata e luogo ideale per il commercio. In particolare qui aveva le sue botteghe l’Arte di Calimala, la corporazione che importava e lavorava le materie prime come la lana grezza dall’Inghilterra e dalla Francia.
Nel Trecento la strada o “ruga” era il cuore pulsante della vita cittadina: era lì che le lavorazioni artigiane si svolgevano e le botteghe con le “madielle”, gli scaffali a muro chiusi da sportelli, vi si affacciavano.
Se la vita ferveva di giorno, la notte era dominata dall’oscurità completa: solo l’Arte della Lana, la maggiore tra le Arti e la più ricca, provvedeva a dare luce alle strade intorno alla zona del Mercato Vecchio, mentre l’arte dei Mercatanti o di Calimala, dal nome della strada dove si svolgeva l’attività di lavorazione dei prodotti tessili grezzi d’importazione e l’esportazione dei tessuti finiti, illuminava i propri magazzini e laboratori e aveva sede in via Calimaruzza o Calimala Vecchia.
Le prime notizie riguardanti la formazione dell’Arte risalgono al 1182 circa, per cui i mercanti fiorentini furono tra i primi a costituire una loro corporazione, prendendo il nome dall’omonima via che ancora oggi collega Piazza della Repubblica con il Mercato Nuovo e che in epoca romana era presumibilmente il cardo, ossia la direttrice nord-sud che partiva dal foro, i cui resti si trovano appunto sotto la pavimentazione di Piazza della Repubblica.
In effetti, le botteghe e i magazzini dei mercanti appartenenti alla corporazione si concentravano quasi tutti in questa antica strada e nella vicina via Calimaruzza, allora molto più stretta ed affollata di gente indaffarata nelle attività commerciali. Secondo Franco Cardini “calimala” deriva da calle maia, cioè la strada maggiore corrispondente all’antico cardo maximus, dove si allineava la maggior parte dei fondachi dediti a questa attività.
Fino al 1237 la sede dell’Arte di Calimala si trovava al piano terra di una delle torri della famiglia Cavalcanti affacciata sul Mercato Nuovo, poi, alla fine del Trecento, ne venne costruita una nuova in Via Calimaruzza, nell’edificio sul quale è ancora visibile l’effigie dell’aquila dorata che artiglia un torsello, direttamente comunicante con quello posto sul Canto del Diamante, all’angolo tra Via de’ Calzaioli e Via Porta Rossa, dove oggi si trova una farmacia.
In questa sede i membri della corporazione si riunivano settimanalmente per discutere e regolamentare le loro attività e come tutte le Arti, ogni questione o intervento riguardante la condotta degli iscritti era riservata al Collegio dei Consoli, che dovevano avere almeno 30 anni, essere fiorentini e di parte guelfa; uno dei compiti primari dei consoli dell’Arte era quello di assistere tutti i suoi membri, ad esempio, aiutandoli nel caso in cui avessero dei crediti in sospeso da riscuotere o fossero stati truffati, sia a Firenze che all’estero, inviando dei messi a spese della corporazione presso i clienti insolventi; inoltre, l’Arte aveva previsto anche una sorta di pensione di anzianità per i soci che vi avessero prestato servizio per almeno 16 anni.
La corporazione si organizzò a proprie spese per mantenere un corpo armato di guardie che durante la notte sorvegliava le botteghe ed i magazzini e si accordava con gli albergatori per offrire alloggio ai clienti stranieri, evidentemente per controllarne anche gli spostamenti ed evitare che potessero trafficare a loro discapito.
L’Arte di Calimala venne soppressa nel 1770 da Pietro Leopoldo di Lorena, quando fu istituita la Camera di Commercio.
I soci di questa Arte importavano le materie prime, come la lana grezza proveniente dall’Inghilterra o dalla penisola iberica (in quanto ritenute le migliori sul mercato), ma anche stoffe e tessuti dalle fiere della Champagne in Francia e per questo detti panni franceschi. I mercanti si riunirono in potenti compagnie commerciali che aprirono diverse filiali e magazzini in molte città europee e del nord Africa; gli agenti dell’Arte di Calimala che vivevano all’estero trattavano perciò anche l’acquisto di merci locali come perle, corallo, oro, argento e seta.
Le pezze acquistate sulle piazze estere venivano marchiate con una sorta di “codice a barre” che ne indicava il paese di provenienza ed il prezzo pagato in moneta locale, poi venivano ripiegate e confezionate a modo di torsello, una balla che poteva essere legata al dorso dei muli, con la caratteristica forma visibile nello stemma della corporazione. I carichi di torselli partivano così sulla soma dei muli che procedevano in colonne ed attraversavano molto spesso mezza Europa per arrivare al porto di Marsiglia, dove venivano imbarcati per Genova o Pisa e da qui, sempre a dorso di mulo, trasferiti a Firenze. Distanze che oggi possono essere coperte in poche ore, richiedevano allora mesi di viaggio, peraltro non privo d’insidie; condizioni meteorologiche avverse, incidenti di percorso e rapine erano i pericoli più frequenti cui andavano incontro le merci e chi le trasportava.
Una volta giunti a Firenze, i panni subivano una serie di procedimenti volti a migliorarne la qualità; i panni in lana grezza, ad esempio, passavano attraverso le operazioni di cardatura, cimatura, raffinazione e tintura, che li trasformavano in prodotti finiti di alto pregio che venivano rivenduti sia in Italia che all’estero, spesso sugli stessi mercati in cui era stata acquistata la materia prima.
I tintori, in particolare, erano tenuti a rispettare precise norme contenute nello statuto stesso della corporazione; queste prevedevano un rapporto esclusivo con Calimala, per cui chi tingeva i panni dell’Arte non poteva farlo per nessun altro ed ogni pezza doveva risultare perfetta al momento della consegna, senza macchie o imperfezioni, pena il rimborso dei pezzi danneggiati. I tintori venivano chiamati vagellai, per via del “vagello”, l’apposita caldaia impiegata durante le operazioni di tintura; il colore che senz’altro veniva più usato era il rosso, con cui si confezionava anche il “lucco”, la sopravveste lunga fino ai piedi e senza cintura indossata da tutti i magistrati del Comune.
I tessuti che venivano acquistati nelle botteghe venivano tagliati con le forbici, secondo l’unità di misura lineare detta canna di Calimala, una sorta di pertica corrispondente a 4 braccia, ossia 2 metri e 33 centimetri; le canne erano suddivise in unità più piccole, da mezza canna, un quarto ed un ottavo e sottoposte ad una verifica annuale da ispettori della corporazione; lo statuto stesso dell’Arte conteneva precise disposizioni a tutela dai clienti, in base alle quali le pezze dovevano essere distese sul banco della bottega con l’orlo ben in vista, segnate nel punto richiesto e tagliate senza “eccedenze”.
Gli appartenenti a quest’Arte erano quindi dei veri imprenditori, che svolgevano delle attività che oggi potrebbero essere definite di import-export; il grosso giro di affari e l’enorme quantità di denaro maneggiato la resero una delle Arti più potenti a Firenze e molto legata alle corporazioni “sorelle” dell’Arte del Cambio, l’Arte della Seta e l’Arte della Lana. Per evitare un conflitto di interessi o una sovrapposizione che avrebbe danneggiato entrambe, le Arti di Calimala e della Lana si accordarono spartendosi i vari rami del commercio tessile; Calimala avrebbe mantenuto il predominio sul commercio estero e quella della Lana sul mercato interno, compresa la raccolta delle materie prime locali.
Tra le famiglie fiorentine più illustri appartenenti all’Arte di Calimala si segnalano gli Albizi, i Pazzi e gli Strozzi.
La potenza della corporazione si manifestò anche nella cura ed il patronato di numerosi edifici; il Battistero di San Giovanni dal 1157 e la chiesa di San Miniato al Monte dal 1228, mentre dagli inizi del Quattrocento la statua del santo patrono realizzata da Lorenzo Ghiberti (1413-1416) si trova nel tabernacolo omonimo della chiesa di Orsanmichele.
Siamo nel centro di Firenze e ancora oggi il tracciato di via Calimala è rimasto lo stesso: dall’attuale piazza della Repubblica a Via Porta Rossa.
In età medievale vi si aprivano vicoli e vicoletti, corti e torri.
Anche via Calimaruzza ha conservato il suo tracciato, che dalla Loggia del Mercato Nuovo conduce in piazza della Signoria.
Se il tracciato rimase nel tempo più o meno lo stesso, ma la via fu modificata e adattata architettonicamente alle nuove esigenze legate al rinnovamento cittadino: oggi è più larga e più luminosa per l’abbattimento, avvenuto nel 1894, delle case che la costeggiavano, dal Palagio dell’Arte della Lana a via di Porta Rossa, con le antiche botteghe dalla caratteristica struttura che i disegni di Corinto Corinti ripropongono.
Il Palagio, che nasceva dalla ristrutturazione di una antica torre dei Compiobbesi situata tra Calimala e Orsanmichele, è l’unica sede delle antiche Arti che, sebbene rimaneggiata, abbia resistito fino ad oggi.
Nella cartolina di Corinti rivivono le vecchie botteghe che descrive nella didascalia: ricavate nei fondi di vecchie torri e palazzi e case praticando nei muri grandi aperture con arcate ad archi ogivali sottesi da quelli a sbarra in modo che tra i due si formasse una lunetta che fungeva da finestra; quando poi le coperture esterne, costituite da tettoie sopra l’arco ogivale oscurarono la lunetta, venne costruita una nuova finestra sopra, per dare luce agli ambienti.
Il nome di Calimala per alcuni deriverebbe da Callis malus, cioè ‘strada cattiva’, per altri da Callis maius, cioè ‘strada maggiore’. Ciò spiegherebbe l’omissione di ‘via’. Già nel nome ci sarebbe l’attributo di ‘callis’.
Calimala potrebbe però derivare da “kalàs mallòs“, che significa letteralmente “abbassare i peli” nel senso di “stendere la lana”, tanto che in Provenzale, gli artefici addetti a tal operazione erano detti appunto “baissers“. E lo strumento utilizzato si chiamava appunto calandra (da “kalàs“);
Ancora, secondo alcuni Calimala trae origine dal vocabolo della nomenclatura botanica “soda kali” o “Salsola kali“, indicante la pianta dall’incenerimento della quale si otteneva la soda. Con la soda si effettuava sulla lana il processo di sodatura (ovvero il procedimento per rendere più robusti e resistenti i tessuti, comprimendoli dopo avergli applicato particolari sostanze).
Per altri ancora, ma con poca credibilità, Calimala deriverebbe da ‘Kali’ che in arabo vuol dire ‘spirito’, e con lo spirito venivano trattate le lane dell’Arte dei Mercatanti o di Calimala. Infine l’origine del nome sarebbe greca, da Kalòs màllos, cioè bella lana. Per altri ancora da Kalimèra, cioè ‘buongiorno'”.
Al di là di tali considerazioni e dell’attuale prevalere dell’interpretazione che vuole il termine derivare da Calle Mala, strada cattiva, è certa l’importanza della via nella città antica, identificandosi con il cardo massimo della città romana, che andava a incrociare il decumano in prossimità del luogo dove è la colonna dell’Abbondanza.
Di questa storia tuttavia ben poco oggi rimane nell’immagine complessiva della strada, essendo stata questa interessata dal progetto di ‘risanamento’ dell’area del Mercato Vecchio (1885-1895), con il conseguente abbattimento delle antiche costruzioni (fatta eccezione, per questo tratto, del palazzo dell’Arte della Lana).
La strada continua tuttavia ad essere una di quelle più frequentate, sia per la presenza di attività commerciali sia per il suo essere arteria pedonale di collegamento tra la zona del Ponte Vecchio, piazza della Repubblica e piazza Duomo.

Per gentile concessione della Sig.ra Gabriella Bazzani

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