L’esercito romano nella tarda antichità.

La grande crisi militare del terzo secolo produsse tra i suoi effetti più evidenti la dissoluzione dell’esercito imperiale romano.

Augusto aveva organizzato l’esercito attorno al concetto di cittadinanza romana. La grande bipartizione tra legioni e truppe ausiliarie, caratteristica dell’alto impero, era appunto imperniata su questo concetto: solo i cittadini romani potevano servire nelle unità militari migliori, meglio pagate e più caratteristiche dell’esercito imperiale, le legioni appunto. Diversamente, gli abitanti delle province – normalmente privi della cittadinanza romana – non potevano arruolarsi altro che nelle più piccole e meno pagate unità ausiliarie, fossero esse di cavalleria (alae) o di fanteria (cohortes).

Per quanto riguarda poi il corpo di élite della guardia pretoriana, l’arruolamento nelle cohortes praetoriae non solo era riservato ai cittadini romani, ma costoro dovevano anche dimostrare una loro provenienza italica. Al contrario, l’arruolamento nelle flotte imperiali era considerato il servizio più umile e meno remunerativo, naturalmente riservato a provinciali privi di cittadinanza. Lo schema gerarchico tra queste diverse unità può ben essere riassunto dagli anni di servizio all’interno delle varie unità prima dell’ottenimento del congedo (honesta missio): 15 anni nelle coorti pretorie, 20 nelle legioni, 25 nelle unità ausiliarie, 27 nelle flotte. Lo stipendio seguiva da vicino questa stessa gerarchia, ma i calcoli per cercare di stabilirne i livelli nelle varie epoche sono estremamente complessi ed esulano da questa trattazione.

Tutto questo ordinamento entrò ovviamente in crisi nel momento in cui l’imperatore Marco Aurelio Antonino, detto Caracalla, promulgò la Constitutio Antoniniana, una legge che prevedeva l’estensione della cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero romano a esclusione solamente di esigue frange della popolazione non romanizzata e del tutto periferiche alla società imperiale e di popolazioni esterne all’impero, che si erano formalmente arrese alle armi romane (i dediticii che trassero il loro nome dalla deditio in /idem, cioè la resa a discrezione). Da quel momento, nel 212, è evidente che la ripartizione augustea dell’esercito non poteva avere più valore, e il sistema di reclutamento dovette profondamente modificarsi. Purtroppo, però, proprio a partire dal momento in cui Caracalla promulgò la Constitutio, la documentazione a nostra disposizione si fa sempre più scarsa. Le fonti storiografiche contemporanee – Cassio Dione ed Erodiano – tacciono. Rimane la sola Historia Augusta, una fonte estremamente problematica in quanto ad affidabilità e accuratezza, mentre altre fonti storiografiche – Zosimo, Zonara, gli epitomatori latini del quarto secolo ecc. – sono molto successive e spesso troppo sintetiche per illuminarci su questi punti. Contemporaneamente la crisi economica contribuì a produrre un crollo nella quantità di epigrafi disponibili – fino a quel momento fonte privilegiata per la conoscenza dell’esercito nei secoli precedenti.

Per effetto di tutto questo dobbiamo ammettere di non conoscere esattamente come si modificò il reclutamento dell’esercito nei decenni – peraltro estremamente concitati – successivi alla Constitutio. Si è ipotizzato, non senza fondamento, che, nel corso della seconda metà del terzo secolo, crebbero i reclutamenti al di là del confine dell’impero, con le truppe ausiliarie arruolate in numero crescente tra popolazioni sempre meno romanizzate.

Tale fenomeno non va però confuso con la cosiddetta «barbarizzazione» dell’esercito romano, che divenne elemento di instabilità politica soprattutto a partire dalla fine del quarto secolo, dopo che, per l’esito disastroso di una seconda battaglia combattuta ad Adrianopoli – ma questa volta tra l’esercito imperiale e i Goti -, Teodosio fu costretto a un «patto» (joedus) con la potente stirpe germanica. Il provvedimento di Caracalla non dovette tuttavia giungere come un fulmine a ciel sereno. Non è possibile immaginare il giovane e violento imperatore come una sorta di utopistico evergete sospinto da tendenze ugualitarie estranee alla sua epoca e alla sua estrazione sociale. Nel 212 la differenza tra cittadini e provinciali era ormai diventata anacronistica, poco operativa sul piano delle concrete dinamiche sociali, e molto più importanti erano le differenze di censo che proprio in quegli anni una rinnovata scienza giurisprudenziale andava normando: a un mondo articolato tra cittadini e provinciali se ne sostituì un altro polarizzato tra persone ricche e potenti (honestiores) e lavoratori, in primo luogo contadini (humiliores). In questo nuovo contesto l’antica ripartizione augustea tra legioni e truppe ausiliarie entrò in crisi, senza che se ne possa compiutamente descrivere l’evoluzione. I senatori vennero progressivamente estromessi dai comandi militari – fenomeno questo che va di pari passo con la perdita d’importanza, direi anzi progressiva irrilevanza, del concetto di imperium.

Le scarse iscrizioni per questo periodo mostrano una certa tendenza delle legioni a frazionarsi in unità più piccole, riunite attorno a singole insegne e per questo chiamate vexillationes. Le nuove necessità prodotte dai nuovi nemici, che soprattutto in Oriente si affacciarono proprio in quegli anni – dal 224 all’esangue dinastia arsacide (i Parti) si sostituì la nuova e aggressiva dinastia sasanide -, motivarono un cambiamento nella tattica e nella strategia dell’esercito romano, la cui più evidente differenza fu il ruolo molto accresciuto della cavalleria, rispetto all’esercito del principato. Più o meno contemporaneamente anche le due grandi flotte militari permanenti volute da Augusto e stanziate a Miseno e Ravenna, chiamate praetoriae perché collocate sul suolo italico, forniscono sempre meno attestazioni sicure della propria esistenza.

Sul piano politico la crisi economica – crisi prima di tutto monetaria, che colpì in particolare il potere d’acquisto della moneta d’ argento, il denarius – piegò le aspirazioni e il morale dell’esercito, che durante il principato percepiva il salario proprio in denarii.

Questo, unitamente alle sopraccennate difficoltà in specifici settori, quali il limes orientale e quello danubiano soprattutto, produsse una situazione di crescente instabilità politica. Le truppe, insoddisfatte per le proprie condizioni critiche, tendevano a rivolgersi sempre più spesso ai propri comandanti, acclamandoli imperatori. Si entrò così in un periodo storico che chiamiamo «anarchia militare» (234-285) e che un biografo tardoantico non ignaro di cultura classica definì dei «trenta tiranni (=usurpatori)». Fu in questo contesto che Diocleziano assunse il potere dopo averlo strappato dalle mani dell’erede al trono designato, Carino, nella battaglia del fiume Margus (novembre 285). Il nuovo imperatore condivideva molte caratteristiche con coloro che lo avevano preceduto nel ruolo negli ultimi decenni: innanzi tutto una provenienza militare (era capo della cavalleria, una carica che ebbe crescente importanza nel corso del terzo secolo e per tutto il periodo successivo); quindi la nascita in una delle regioni meno avanzate dal punto di vista sociale di tutto l’impero romano: l’Illirico, terra d’elezione per estesi arruolamenti; infine, terza caratteristica in buona parte derivante dalle altre, una mentalità rude e semplice, tutta incentrata sull’idea della restaurazione dell’antica – e oramai apparentemente perduta – grandezza di Roma.

Per tali motivi questi imperatori della seconda metà del terzo secolo, da Claudio Gotico in poi, vengono designati col nome collettivo di restitutores Illyriciani. Secondo tale mentalità retriva, militaresca e superstiziosa, sostanzialmente condivisa da questi imperatori, uno dei fattori principali di declino della grandezza di Roma andava ricercato nelle continue offese arrecate agli dèi dai fedeli di una nuova religione, il Cristianesimo, i quali, poiché non riconoscevano le divinità ancestrali – e, cosa forse ancor più importante, la divinità dell’imperatore – venivano considerati atei. Contro questo ateismo dilagante vennero quindi, in questo periodo, scatenate vere e proprie persecuzioni – le uniche che lo stato romano abbia mai condotto contro la religione cristiana intesa come delitto ideologico, nomine ipsum. Decio, Valeriano, Diocleziano sono infatti commemorati nella tradizione cristiana come i grandi persecutori, e come tali vennero conseguentemente trattati nell’operetta polemica di un apologeta vissuto durante il regno di Costantino, Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, autore, appunto, di un’opera intitolata Sulle morti dei persecutori (naturalmente, dei cristiani), scritta attorno al 318-321.

Nessuno meglio di Diocleziano era nella posizione di comprendere i pericoli che si annidavano dietro la crescente insoddisfazione e il disordine dell’esercito. Dopo tutto lui stesso era stato acclamato dalle truppe contro il legittimo erede Carino, designato dal padre Caro prima che questi morisse assieme al fratello nell’ennesima, sfortunata spedizione contro i Persiani (estate 283).

La grande riforma dioclezianea si configura quindi, innanzi tutto, come una grande riforma dell’esercito. Ci si consenta un’ulteriore digressione preliminare: quando si parla di esercito nel mondo antico – e direi nel mondo premoderno in generale – si intende la voce quasi unica del bilancio statale. Al centro di qualsiasi riforma di carattere economico, pertanto, vi erano necessità o preoccupazioni di natura militare. Nel caso di Diocleziano la nuova ristrutturazione dell’esercito comportò modifiche così profonde da diventare strutturali e da toccare tutti gli ambiti, nessuno escluso, dell’amministrazione statale e interessò la vita concreta di tutti gli abitanti dell’impero, anche se costoro non avevano nulla a che fare con l’esercito.

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