Senso della morte

 Da qundo da scimmie l’uomo è diventato tale, sa che deve morire e consapevole di ciò ha paura della morte. La rifiuta. Allora, ha creato un dopo di se. Lo ha chiamato in vari modi, Campi Elisii, Paradiso, Whalalla, Grandi Praterie, altro ancora. Un posto dove perpetuare se stesso, dopo la morte. E per meritare questo premio, ha inventato una sorta di assicurazione sull’aldilà. Paghi qualcosa in vita, riscuoti dopo la morte nella vita ultraterrena. Vale anche per l’idea di inferno, questo principio. Anzi, l’idea di inferno ha una funzione sociale notevole: ti comporti male di qua, non avrai il premio di là. Anzi, sarai punito. Non potendo affidare a se stesso la gestione di questo aldilà, è stato necessario ricorrere ad un “quid”, fuori di lui, cui affidare il futuro ovvero la vita eterna. Lo ha chiamato in vari modi, questo “quid”, questo dio onnipotente Illusione necessaria perchè la fede, che è sublimazione della speranza, se non ci fosse andrebbe inventata.

Ma se invece di ricorrere a questo dio, si chiami esso Jhawè, Cristo, Allah, Manitù, ed altro che poi sono la stessa cosa, ci si rendesse conto che l’uomo è parte di un divenire, è esso stesso il dio che nasce, che cresce, un dio che adesso non c’è e che forse ci sarà, sarebbe più facile affrontare la vita, rendendoci conto, orgogliosamente, che essa ha davvero un senso che è quello di cercare di comprendere il mistero dell’uomo, il suo divenire, il perchè di noi.

E le angosce della vita presente ci sembrerebbero più lievi. Niente di quello che abbiamo fatto e pensato viene perduto. Solo, non sappiamo (ancora) in quali forme si perpetua. E questo vale anche per coloro che si accontentano di vivere, pragmaticamente, il quotidiano secondo coscienza. La speranza, siamo noi. La fede, siamo noi.

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